lunedì 6 ottobre 2025

Cima di Valtorta, Via Normale (120 m, III)

Zona: Agner
Sviluppo: 120 m
Esposizione: NE
Tempo: 4 h
Difficoltà: III
Discesa: a piedi e in doppia
Materiale: friend e cordini

Itinerario d’ambiente, consigliato a cordate esperte nel muoversi su terreno misto e privo di riferimenti da affrontare in periodi asciutti e con condizioni stabili. La via, non segnata né attrezzata, si svolge tra mughi, cengette e brevi risalti di roccia compatta, richiedendo intuito e capacità di muoversi su terreno misto. L’impegno non è tanto tecnico quanto ambientale e d’orientamento.

Accesso:
dal Rifugio Scarpa raggiungere Malga Agner in discesa. Da qui una debole traccia (aiutarsi con carta e gps) conduce sempre in costa verso il baito dei cacciatori nominato "Casel del Nenti" posto esattamente sotto alla est della Cima di Valtorta. Da qui puntare la base della parete per tracce di camoscio e puro "ravanage". Quando il terreno si fa più aperto si supera un passo di roccia sulla sinistra fino ad arrivare per prato ripido alla Forcella Scura. (1h30’). 

Descrizione:
L1 Dalla forcella rimontare un muretto nel punto più facile a destra e con breve traverso andare ad aggrappare i mughi sui quali ci si issa prima e si galleggia sopra poi. Si giunge ad un canaletto che crea un tunnel tra mughi che porta ad una zona libera con albero secco dove si sosta. (30 m, II)
L2 Traverso a destra su cengetta e si risale il canale umido ed erboso. Lo si risale con passi di III, traversando poi a sinistra fino a uno spigoletto e a un terrazzo con massi e spuntoni dove si sosta. Presente cordino di calata su mugo che ci servirà al rientro. (40 m, III)
L3 Si prosegue a piedi per lasta inclinata verso sinistra fino ad una forcelletta dove si sosta su friends. (40 m, II)
L4 Guadagnare la cresta ed in breve ci si trova sulla sommità. (10 m, III)

Discesa:
Dalla cima si torna per cresta disarrampicando prima e percorrendo a ritroso la cengia inclinata fino alla sosta di calata su mugo. Con una doppia da 30 m si è di nuovo al mugo secco dove si percorre a ritroso con attenzione il primo tiro tra i mughi fino alla Forcella Scura. Da qui stare sotto ai Denti (o Torri) di Valtorta fino alle reti paravalanghe (traccia di camoscio). Percorrere tutte le reti verso ovest rimanendo in quota fino ad intercettare sentiero che scende a Malga Agner.


Casel del Nenti

Forcella Scura

L4 con i Denti di Valtorta sullo sfondo

Spiz de la Lastia e in primo piano il Dente di Satanasso


Monte Chessaruia, Turbamento Inguinale (180 m, V)

Zona: Cala Gonone
Esposizione: SW
Sviluppo: 180 m
Difficoltà: V 
Discesa: a piedi
Materiale: friend e cordini.
Tempo: 1h30’–2h la via


Classica salita di carattere esplorativo sulla parete ovest del Monte Chessaruia (o Budino dei Giganti), a Cala Gonone. La via “Turbamento Inguinale” si sviluppa lungo l’evidente pilastro sinistro che precede la grande parete ovest, ben visibile anche dalla strada a tornanti che scende verso il mare.
I primi due tiri offrono arrampicata di qualità, su calcare solido e scolpito, con movimenti eleganti e ottima aderenza. Le sezioni successive sono in cresta quindi più facili e disarticolate, ma conservano il fascino dell’ambiente isolato tipico del Supramonte costiero.
Nonostante siano stati infissi degli spit di passaggio sulle sezioni più impegnative è consigliabile proteggersi a friend vista l'attrezzatura ormai vetusta e corrosa. La via è ideale nelle mezze stagioni, quando il calore del sole sardo diventa sopportabile.

Accesso
Dal distributore di Cala Gonone prendere la strada asfaltata in salita (Via Cartoe) fino all'incrocio con via Monte Ruiu. Da qui una strada sterrata con buche molto profonde porta nei pressi di uno slargo di fronte ad una cava con edificio dove si parcheggia.
Si prercorre la sterrata in direzione del Budino in leggera salita, ignorando il bivio a destra per il Budinetto. Prima di arrivare ad un ovile si prende una traccia con ometti che tra la macchia porta alla base dello spigolo SPQR (chiodo). Da qui si sta sotto parete fino al seguente pilastro dove inizia la via nei pressi di una placca. Scritte IV e V incise nella roccia.

Descrizione
L1 Se si sale per la variante di V si affronta una placca tecnica con spit arrugginiti. La variante di IV ha solo un paio di chiodi. La sosta si trova un po' nascosta appena le rocce si abbattono sulla sinistra. 5a, 30m.
L2 Per rocce abbattute si punta il camino diedro che si affronta direttamente. Sosta comoda in uscita. 5a, 30 m.
L3 Seguire fedelmente la cresta per 50 m e sostare su spuntone. IV.
L4 Ancora per cresta, via via più facile per altri 60 metri. III.

Discesa
Dalla sommità si seguono gli ometti che teoricamente dovrebbero portare alla sosta finale della via Giusys dalla quale con una calata di 60 m sul versante est deposita alla base. Noi questa sosta non l'abbiamo trovata.
L'alternativa è salire quindi seguendo altri ometti per quasi tutta la cresta fino ad un evidente intaglio che permette di disarrampicare e scendere per ghiaione e macchia sotto alla parete ovest (altri ometti) e da qui fino al punto di attacco. 50 min.

Attacco via SPQR


L1 variante di V


L2

Cresta finale




Monte Oddeu, Quindicesima Legione (170 m, V)

Zona: Surtana
Sviluppo: 170 m
Esposizione: SO
Tempo: 2 h
Difficoltà: V max
Discesa: a piedi
Materiale: friend medi, cordini.


Classica linea di spigolo nel cuore del Supramonte, che si sviluppa lungo la cresta centrale del versante occidentale del Monte Oddeu. Dopo due tiri di raccordo, la via entra nel vivo con arrampicata elegante e continua, su calcare compatto e scolpito, tipico della zona. L’itinerario è logico e mai banale, con tratti centrali entusiasmanti e movimenti sempre interessanti, talvolta esposti quanto basta per rendere la progressione appagante.
Pur senza difficoltà elevate, l’ambiente selvaggio e il carattere d’avventura le conferiscono un sapore da via classica completa. Ideale in mezza giornata e perfetta nelle stagioni intermedie, quando non fa troppo caldo. Le soste sono a fix e sulla parte bassa è presente qualche tratto detritico.

Accesso
Dal ponte Sa Barva (strada per le gole di Gorroppu) si attraversa il torrente e si segue la pista sterrata in direzione est. Dopo circa 300 m si trovano le indicazioni per Tiscali (sentiero 481) dove si parcheggia.
Si risale la Scala di Surtana, ripido sentiero a tornanti, fino a un tratto pianeggiante e a una breve discesa. Poco prima di entrare nel Doloverre, una traccia a sinistra segnata da ometti porta verso la base della parete.
L’attacco si trova in corrispondenza dello spigolo centrale del versante ovest del Monte Oddeu, nei pressi di una placca piatta sgombra da vegetazione e un grande ometto che segna anche la discesa dalla vetta. Seguire la traccia verso sinistra nella macchia per alcune decine di metri fino a un masso da cui parte la via. XV inciso nella roccia. 1h15’.

Descrizione
L1 Si sale lo spigolo restando leggermente a destra all’interno. Sosta su fix. (40 m, III, passo III+)
L2 Partenza a sinistra del filo, lo si scavalca subito (1 chiodo) per raggiungere un albero con cordone. Poi si prosegue sulla sponda destra di un canale e si supera una breve placca compatta (1 chiodo). Sosta su fix sotto un albero. (35 m, III, passo III+)
L3 Si aggira a sinistra uno strapiombo (1 chiodo), quindi traverso a destra fino alla sosta su fix. (15 m, III, passo IV+)
L4 Breve muretto, traverso a sinistra verso una sosta di altra via, poi muretto verticale (1 chiodo) in piena esposizione. Sosta su fix. (25 m, III+, passo IV+)
L5 Traverso a destra, poi diedro (1 chiodo) su roccia lavorata e appoggi minimi. Passaggio più tecnico della via. (25 m, III+, passo V-)
L6 Cresta finale con qualche roccia mobile. Si aggira un ginepro, poi breve canalino fino alla sosta. (30 m, III+)

Discesa
Dalla vetta si segue una cengia per circa 50 m (due passaggi leggermente esposti), quindi si prosegue in discesa seguendo attentamente gli ometti fino al sentiero di avvicinamento. 45’.

Lo spigolo

Scritta alla BASE






martedì 9 settembre 2025

Pasubio, "In direzione ostinata e contraria" (VI+, 650 m, V obb.)

Zona: Campanili del Cherle, Terza Pala
Sviluppo: 650 m
Esposizione: NW
Tempo: 4 h (solo la via)
Difficoltà: VI+ 1 passo
Discesa: a piedi
Materiale: nda, friend e chiodi

Itinerario di pura ricerca, dallo stile classico, che sfrutta camini e colatoi solcanti l’intera parete dalla base fino alla cima. È stato aperto nel settembre 2024 dalla prolifica cordata Stefani-Rini. La salita richiama, in piccolo, i boral della Valle di San Lucano ed è quindi indicata soprattutto a chi predilige l’alpinismo d’avventura rispetto alla pura arrampicata. La nostra, assieme a L. Gaspari, è stata la prima ripetizione ad un anno dall’apertura. La relazione ufficiale è stata pubblicata su Le Alpi Venete, numero primavera-estate 2025.
Le difficoltà tecniche non sono elevate, la via è ben chiodata (soste incluse), ma l’impegno complessivo non è da sottovalutare: il complesso rientro richiede buona esperienza alpinistica e condizioni meteorologiche stabili, a causa del terreno infido e della totale assenza di tracce, fatta eccezione per quelle lasciate dai camosci. Si tratta del primo itinerario alpinistico aperto su questa struttura rocciosa che sovrasta il paese di Raossi, in Vallarsa, conosciuta sulle carte come I Campanili e collegata al complesso del Cherle tramite una sottile cresta sommitale. La via raggiunge la cima della Terza Pala (toponimo proposto dagli apritori), con i suoi 650 metri di sviluppo, risultando una delle più lunghe dell’intero gruppo Pasubio-Carega. L’ambiente è selvaggio e incontaminato, con roccia varia: generalmente buona, solida e slavata nei camini, ma con tratti detritici nei settori appoggiati. Alla penultima sosta, dove si trova anche il barattolo di via, è presente una nicchia che può fungere da bivacco per due persone. L’itinerario va affrontato esclusivamente in periodi asciutti.

Accesso:
Da Raossi (Vallarsa), parcheggio al centro del paese, si torna indietro di circa 100 m e si imbocca a sinistra una stradina asfaltata ripida (palina CAI 135 e fontana di fronte). La strada diventa poi sentiero, entrando in Val di Piazza, da cui la struttura rocciosa è già visibile.
Dopo due bivi consecutivi si tiene sempre la destra e si scende sul greto del torrente. Prima del ponte si abbandona il sentiero e si segue il torrente per 30-40 minuti, superando una briglia sulla destra, fino a raggiungere la verticale della parete. Qui si risale un canale di scolo sulla destra (freccia blu su masso), che in circa 20 minuti porta ad un risalto umido segnato da un chiodo con cordino rosso. Dopo questo risalto altri 100 metri di facile canale portano al primo tiro vero e proprio. Tempo complessivo: circa 1h20’.

Descrizione: Si rimanda all’ottimo schizzo degli apritori; in ogni caso la via può essere idealmente suddivisa in tre sezioni. La prima parte (primi 5 tiri) concentra i passaggi più impegnativi, resi delicati dalla roccia lisciata. La parte centrale (tiri 6-9) segue invece un canale più abbattuto, percorribile anche in conserva. Nella parte finale (tiri 10-14) la via si raddrizza tra camini e placche. Qui abbiamo evitato le placche verticali e sprotette del L12, scegliendo di salire per la fessura a sinistra. Al tiro 13, invece, siamo usciti direttamente forzando il camino con masso incastrato: nonostante la roccia umida, si trovano buone prese e una solida clessidra sotto il blocco.

Discesa: Dalla cima della Terza Pala si risale brevemente la Seconda Pala. Da qui si segue la cresta verso est in salita per poi perdere quota lungo il ripido crinale erboso a sud-ovest fino ad un evidente larice isolato. Si attraversa il pendio erboso fino a calare ad un gruppo di betulle, dove si trovano tracce della Grande Guerra (grotta militare utile come riparo). Si prosegue lungo la cresta erbosa e rocciosa, rimanendo a tratti sul filo e a tratti sul versante sinistro, fino ad un primo gruppo di faggi. Qui si abbandona la cresta per scendere tra faggeta, aggirando risalti e seguendo sempre come riferimento il crinale verso la Val di Piazza. Dopo lunga discesa nella macchia per tracce di camoscio si raggiunge una zona pianeggiante prima e una vecchia una forestale che porta di nuovo al torrente dell'avvicinamento, lo si attraversa e per traccia sulla destra idrografica in breve si ritorna al ponte dell'avvicinamento. 
Tempo complessivo: 2h30’.


Primo tiro, chiave

La volta rocciosa

Grande placca abbattuta

Iniziano i camini

Uscita dalle placche verticali

Penultimo tiro

La cresta verso il grande larice

La seconda cresta in direzione Val Piazza

Foto originale degli apritori

Schizzo originale degli apritori




martedì 2 settembre 2025

La prima salita dello spigolo Nord dell'Agner

Interessantissimo capitolo, come del resto lo sono tutti quelli di questa pregiata edizione dedicata alle prime e più importanti ascensioni del gruppo. L’opera accompagna il lettore dalle radici etimologiche della toponomastica locale, alle leggende della Valle di S.Lucano, fino all’“Agner dei giorni nostri”, cioè al 1983. Chi ha la fortuna di potersene ancora procurare una copia non se la lasci sfuggire.

"Lo spigolo Nord"
di Bepi Pellegrinon
(pubblicato su "Agner, il gigante di pietra" 1983)

Agli inizi degli anni 30, la stagione d’oro del 6° grado era nel suo pieno fiorire, anche nelle Dolomiti. Principali protagonisti ne erano, ormai, gli alpinisti dolomitici italiani, della nuova generazione.

Era, quindi, naturale che un problema affascinante, come quello dello spigolo dell’Agnèr, richiamasse l’attenzione delle più forti cordate.

Nel luglio del 1932 un serio tentativo vide a protagonisti l’agordino Giovanni Andrich ed il bellunese Ernani Faè. Il primo, era il prediletto compagno di cordata di Attilio Tissi, uno dei più forti scalatori dell’epoca, assieme al quale aveva compiuto la prima ripetizione italiana della via Solleder-Lettenbauer, sulla parete NO della Civetta ed aperto alcune difficilissime vie nuove. Il secondo, che sarebbe stato, negli anni successivi, protagonista, nella cordata di Alvise Andrich, di alcune brillantissime conquiste, aveva, fra l’altro, già al suo attivo la ripetizione della stessa Solleder.

Andrich e Faè affrontarono lo spigolo, senza ricognizioni preliminari e, quindi, con una notevole incertezza sul percorso da seguire, per raggiungere il tratto superiore, dove, evidentemente, si concentravano le maggiori incognite. Essi attaccarono notevolmente più a sinistra dell’attuale percorso, in prossimità della grande gola, che corrisponde anche all’attacco della via della parete Nord. Di lì, si portarono gradualmente verso destra, sino a raggiungere il filo dello spigolo, già a notevole altezza. Secondo quanto ci ricordava Giovanni Andrich, poco prima della sua scomparsa (1972), essi dovettero vincere difficoltà assai forti (a suo giudizio, anche estreme), su rocce infide e, pertanto, quando pervennero sul percorso più logico, erano già notevolmente affaticati. Inoltre, il materiale a loro disposizione era alquanto scarso. Poterono, però, farsi un’idea abbastanza chiara del tratto chiave, al quale erano giunti molto prossimi e, soprattutto, poterono individuare il percorso più naturale e logico dei due terzi inferiori, fra l’altro più diretto e prossimo al filo dello spigolo, che seguirono nella discesa.


Giovanni Andrich ebbe la netta sensazione, anzi la certezza che, ad un secondo tentativo, la conquista sarebbe felicemente riuscita e ne parlò al suo fortissimo amico Tissi. Questi, però, si era già impegnato, con Domenico Rudatis per un’altra audace impresa, la parete NO del Pan di Zucchero della Civetta, che riuscì felicemente, in cordata con lo stesso Andrich.

Fu così che, alla fine di agosto, reduce dalla scalata del Pan di Zucchero Giovanni Andrich ricevette la visita dei friulani Celso Gilberti ed Oscar Soravito, che gli manifestarono la loro intenzione di affrontare il problema dello spigolo dell’Agnèr e gli chiesero notizie sul suo tentativo.

Andrich, come tutti gli alpinisti del suo e di ogni tempo, sentiva profondamente lo spirito di emulazione e competizione e non poteva evidentemente rallegrarlo il fatto che una così agguerrita cordata si accingesse, con ogni probabilità, a soffiare una prima da lui ambita e già sofferta. Tuttavia, e non è il solo episodio del genere, accaduto a quell’epoca e di quella scuola - non solo non ne nacquero polemiche alpinistiche, rancori e, magari, tentativi di in qualche modo sabotare la concorrenza (come non di rado avviene ai giorni nostri, talvolta sino ed oltre i limiti del codice penale), ma il generoso Andrich fu prodigo di informazioni e consigli preziosi agli amici-rivali. Se ben ricordiamo, li accompagnò addirittura, con la sua auto, a Col de Pra, in vista dello spigolo e lo stesso Soravito, nella sua rievocazione di trent’anni dopo, parla di «alcune indicazioni dateci da Giovanni Andrich su un precedente tentativo».

Resta, comunque, un episodio significativo, che sta ad indicare la nobiltà, signorilità e lealtà di una classe di alpinisti, che, prima che grandi atleti, erano veri uomini, nel senso più pieno del termine.

Celso Gilberti

Ciò che colpisce, nell’impresa di Gilberti e Soravito, è la grande sicurezza nell’individuare la via e la rapidità di esecuzione di una scalata di tanto sviluppo.

La spiegazione è duplice. In primo luogo, la grande classe di una cordata perfettamente allenata ed affiatata, guidata da un autentico fuoriclasse, sotto il profilo atletico, morale ed intellettuale, come Celso Gilberti. Friulani entrambi, la loro formazione alpinistica si era compiuta su terreno particolarmente aspro, come quello delle Alpi Carniche e Giulie, caratterizzate dagli approcci lunghi, scomodi, in luoghi spesso remoti, dalla roccia imprevedibile, a volte compatta, a volte friabile, bagnata, coperta di muschio od erbe insidiose. Non erano, quindi, uomini da timore reverenziale, né di fronte alla severa imponenza dell’Agnèr, né sul complesso ed insidioso zoccolo, né sul tratto chiave superiore, impressionante ed enigmatico.
Senza nulla togliere all’indiscusso valore dei primi salitori, non vi è, però, dubbio che le notizie ed i consigli di Giovanni Andrich furono preziosi e tali da risparmiare non poche incertezze e non poco dispendio di energie fisiche e psichiche.

Oscar Soravito

Scrive Oscar Soravito nella sua rievocazione «Monte Agnèr - Trent’anni dopo» (in «Rivista Mensile» del C.A.I., n. 11 novembre 1964):
«Il 29 agosto 1932, alle ore tre del mattino, Gilberti ed io, lasciavamo Col di Prà diretti allo spigolo dell’Agnèr. Non avevamo mai visto da vicino la montagna, che presenta un salto di 1600 metri dalla base ed un dislivello di oltre 2200 metri dal fondovalle; unico punto di riferimento preciso una fotografia comperata il giorno prima ad Agordo ed alcune indicazioni dateci da Giovanni Andrich su un precedente tentativo.

Come equipaggiamento avevamo una corda di canapa di 40 metri da 12 mm, ed un cordino da 8 mm pure di 40 metri; queste corde erano buone, ma non valevano certamente quelle attuali di fibra sintetica più leggere e resistenti; esse poi avevano il gravissimo difetto di diventare rigide se bagnate, rendendo difficoltose, se non impossibili, le manovre di assicurazione e di corda doppia: il maltempo, pertanto, rappresentava una minaccia ben più grave di quanto oggi avviene, e questo fattore aveva un notevole valore psicologico. Dieci moschettoni e quindici chiodi: allora si chiodava poco, lo stretto necessario per l’assicurazione; in questa lunga arrampicata, con tutte le incognite di una prima salita ed il forzamento di molti passaggi della massima difficoltà, abbiamo impiegato in tutto una dozzina di chiodi, quasi tutti levati. Calzavamo pedule in pelle scamosciata con suola di feltro pressato (manchon): avevano il vantaggio di essere leggere e di permettere una grande sensibilità sulla pianta del piede e sugli appigli arrotondati, ma per contro l’adesione era minore e non mordevano di punta; specie sugli appigli minimi non facevano presa, tanto che oggi l’arrampicare con gli scarponi gommati, a suola rigida, permette possibilità che una volta non esistevano; le pedule inoltre duravano poco, tanto che dopo un’arrampicata lunga, con una discesa disagevole come questa, andavano regolarmente fuori uso. Completavano l’equipaggiamento due sacchi da bivacco in seta gommata, una lampada, maglioni di ricambio, ecc.; il tutto contenuto in un sacco da montagna portato per tutta la salita sulle spalle di chi scrive, quale incomodo, sgradito, ma necessario compagno di viaggio.

Ci accompagnava fino all’attacco un vecchio boscaiolo del posto per guidarci nella notte attraverso le incerte tracce di sentiero dei boschi dell’approccio e per riportare alla base gli scarponi chiodati. Lo ricordo ancora, paterno nei suoi consigli di prudenza; mancante di una mano, reggeva col moncherino una lanterna e si cacciava con decisione attraverso sterpaglie, arbusti e ramaglie del bosco carico di rugiada.

Era giorno appena fatto quando attaccammo. Fu una rapida velocissima cavalcata. Fortuna, abilità, intuito, affiatamento della cordata, freschezza atletica furono i fattori del successo. In meno di cinque ore superammo i primi 1000 metri di dislivello procedendo appaiati senza assicurazione sui tratti di media difficoltà. Prendemmo fiato: sopra, lo spigolo si raddrizzava verticale, le rocce apparivano lisce, bianche, senza risposta ai nostri interrogativi di una direttrice di salita; c’erano ancora 600 metri di arrampicata, qualche cosa come una parete Sud della Marmolada oppure una parete Nord della Cima di Riofreddo. Studiammo la situazione prima dell’attacco decisivo: impossibile girare lo spigolo a sinistra: a destra vi erano ben poche possibilità, anche se la visuale era impedita. Continuando diritti si potevano salire 50-60 metri, ma poi? Poi, incisa dietro un terrazzino e nascosta alla vista, c’era una fessura strapiombante alta 20 metri, ed appena sopra una parete liscia di rara bellezza che permetteva di superare, con estrema difficoltà, la prima incognita delle difficoltà. Ma ormai avevamo la netta sensazione di poter passare e proseguimmo più che mai decisi e sicuri.

Fummo felici in vetta? Quali furono le nostre sensazioni? Quali i nostri pensieri? Ma!... Difficile dirlo. La tensione nervosa, lo sforzo fisico, la necessità di iniziare subito la discesa che non conoscevamo, non ci devono avere lasciato modo di approfondire il nostro stato d’animo. Ma solo certi di avere vissuto una magnifica avventura, librati nel cielo, in ambiente di sovrumana bellezza; e questa nostra certezza derivava non solo da un fatto mentale, che interessa il cervello, ma da tutto il nostro essere in unisono con la natura.

Impiegammo complessivamente ore 10,40 dall’attacco alla vetta, con ore 9,15 di arrampicata effettiva. Partiti dal Col di Prà alle ore 3, abbiamo attaccato alle ore 5,15, arrivando in vetta alle 15,55; scesi per la via normale eravamo a Frassené ben prima delle ore 19 per arrivare con la corriera ad Agordo alle ore 19,20.

Marco Dal Bianco sul tiro chiave

Con questa grande ascensione, Celso Gilberti aveva toccato il culmine della sua straordinaria carriera di alpinista. Egli avrebbe concluso la stagione alpinistica 1932 con una nuova bella prima, ancora in compagnia di Oscar Soravito, sulla parete E del Bila Peč (gruppo del Canin, Alpi Giulie). Poi, l’11 giugno 1933, sulla parete E della Paganella, presso Trento, la sua fiorente giovinezza veniva tragicamente stroncata, a soli ventidue anni. Nato nel 1911, Celso Gilberti aveva sentito assai precocemente l’attrazione per la montagna: del 1927, a soli sedici anni, è la sua prima via nuova, sulla Torre NE dei Fulmini di Popera. Da allora, in soli sei anni di attività realizzò ben 46 vie nuove o prime assolute e non meno di un centinaio di importanti ripetizioni, in tutte le Alpi, dalle Giulie, alle Occidentali. Le sue vie sono, spesso, capolavori di intuizione e di eleganza. Così, ad esempio, il trittico del Mangart: parete N della Veunza, spigolo N del Piccolo Mangart, direttissima al Mangart. Nelle Dolomiti, fra molte grandi imprese, due fanno particolarmente spicco. L’una è quella dell’Agnèr, l’altra, realizzata l’anno precedente, in cordata con Ettore Castiglioni, è la grandiosa parete O della Busazza, alta più di 1000 m. Un’arrampicata straordinaria, per la continuità delle difficoltà, ancora oggi considerate pressoché al limite dell’arrampicata libera, realizzata con un minimo impiego di chiodi, usati, peraltro, solo per assicurazione. Un sesto grado dell’epoca.

Pur nel breve arco di tempo concessogli dal destino, la sua attività spaziò, dalle predilette Giulie, Carniche e Dolomiti, fino al Monte Bianco, ove accarezzò il sogno della conquista della parete N delle Grandes Jorasses, uno dei massimi problemi alpini del tempo.

Se il ricordo delle sue ascensioni è già sufficiente a qualificarlo come alpinista eccezionale, non meno affascinante appare la personalità dell’uomo, attraverso il ricordo dei suoi compagni. Così lo descrive Giovanni Battista Spezzotti, in una commossa rievocazione («Celso Gilberti», Udine, 1959):
«Alto, slanciato, ben proporzionato nella figura aitante, volto delicato di linee ed armonico di tratti, fluido di quasi dorati capelli, vasta fronte pensosa. Due occhi chiari, profondi tralucevano la dolcezza e l’integrità dello spirito, e neppure la lieve ombra di malinconia, che sembrava sfiorarli, valeva a nascondere il lampo metallico dell’indomabile energia che animava quel grande sognante fanciullo.
Fiero, indipendente s’ancorava ad un individualismo, all’apparenza, spietato; altro non era invece che naturale portato di una volontà granitica nel fervido, ma latente, calore di una intensa passionalità, fiorito sboccio di un animo generoso, ma riservato... Precocemente maturato nel carattere e nella volontà, difeso dall’austerità di un costume di consapevole dignità e fierezza, fu attratto per naturale elezione all’alpinismo di alto stile e di grandissimo impegno, nella più moderna ed aggiornata delle concezioni».

Un altro sommo alpinista di quel tempo, il triestino Emilio Comici, scrisse che Celso Gilberti era stato «il vero Cavaliere della Montagna, veracemente il più puro ed il più modesto» ch’egli avesse conosciuto, «arrampicatore formidabile, fra i migliori, e chissà forse il migliore».

Il suo compagno di cordata dell’Agnèr e di molte altre imprese, Oscar Soravito, ripeté la grande ascensione trent’anni esatti più tardi, il 27-28 agosto 1962, assieme a Piero Villaggio e con una nuova difficile variante diretta. Ciò gli offrì lo spunto per una rievocazione, dalla quale abbiamo già tratto il racconto della prima ascensione, riportato poco sopra.
Soravito, nella sua rievocazione, traccia un ritratto particolarmente commosso del grande compagno caduto, che egli definisce «leggendario eroe della montagna, carissimo indimenticabile amico», che, a trent’anni di distanza non esita a definire «il più forte alpinista italiano dell’epoca».

Anche Soravito, accanto all’eccezionale abilità alpinistica di Gilberti, insiste nel sottolinearne la eletta personalità umana: «Mente creativa di vaste vedute, una grande gentilezza d’animo ed una tagliente ferrea volontà; poi intelligenza, dinamismo, cultura umanistica e tecnica... La sua prematura dipartita, alla vigilia di discutere la tesi di laurea al Politecnico di Milano, è stata una perdita irreparabile...».

lunedì 25 agosto 2025

Monte Baldo, Via Madrigal Meridian (140 m, V-)

Zona: Cima Prà della Baziva (2207 m)
Sviluppo: 140 m
Esposizione: W
Tempo: 4 h
Difficoltà: V- 1 passo
Discesa: a piedi
Materiale:  singola, friend & nuts, chiodi inutili

La Cima Prà della Baziva rappresenta la seconda elevazione della catena del Monte Baldo, situata tra Cima Valdritta e Punta Pettorina. Sul versante ovest presenta alcuni scivoli rocciosi, moderatamente inclinati e lunghi un centinaio di metri. In passato, secondo gli apritori, questi tratti sono stati probabilmente percorsi come terreno di allenamento da cordate locali.
Nell’estate del 1990 Davide Martini e Alessandro Savoia, entrambi del CAI di Mantova, riscoprirono questi divertenti scivoli, li attrezzarono e ne pubblicarono la relazione sulla Rivista del CAI, tracciando due vie: Tangram e Madrigal Meridian. La prima, più facile, corre lungo il bordo sinistro della placconata rotta, misura circa 150 metri e propone difficoltà discontinue fino al IV. La seconda, che affronta la placca centrale più compatta, presenta un passo di V- con uno sviluppo analogo. Federico Allegrini, che conservava memoria di alcune ripetizioni di quegli anni e aveva ritrovato lo schizzo originale disegnato di suo pugno, ha riacceso il mio interesse e si è proposto per una ripetizione, a distanza di 35 anni, della più interessante dal punto di vista alpinistico: Madrigal Meridian. L’esperienza, compreso l'avvicinamento per il divertente Vajo Paradiso e Cresta del Gal,  ha confermato il valore della via, rivelatasi molto ben proteggibile con friends. Abbiamo rinvenuto tre chiodi di sosta e cinque chiodi di passaggio, esattamente come riportato nello schizzo originale. La roccia, in generale solida e affidabile, viene mantenuta ripulita dalle valanghe; solo nei tratti più appoggiati ed erbosi si incontra qualche piccolo detrito.

Accesso: Proveniendo da Ferrara di Monte Baldo si oltrepassa Cavallo di Novezza e si parcheggia lungo la SP3 nella piccola area dove parte il sentiero n°652, il quale sarà il nostro rientro. Si prosegue a piedi per strada asfaltata fino ad incontrare sul lato sinistro un foro di scolo con tre sbarre metalliche e recintato da una ringhiera in ferro: qui inizia il Vajo Paradiso. Lo si segue nel fondo roccioso per ripulito ed appigliato con passaggi di II-III fino all'altezza della prima evidente torre della Cresta del Gal, visibile sulla destra, guadagnando velocemente 100 metri di quota.
Si abbandona quindi il vajo per traccia a destra che cinge la torre sul lato sinistro, e seguendo sempre le tracce (passi di II), sempre fedelmente in cresta, si raggiunge il sentiero 651 a quota 2000 m. Lo si segue brevemente verso sud fino ad arrivare alla forcella di Val Fontanella dove sono visibili alcuni monotiri e dove è presente la famosa "acquasantiera". Si scende per ghiaione attraversando verso sinistra fino alla base delle placche ora ben visibili. Nel punto più basso attacca Tangram, si risale pochi metri verso la placca più compatta, sulla verticale di un tetto dove attacca Madrigal Meridian. 1 ora e 30.

Descrizione:
L1. Salire la placca sul suo margine sinistro per proteggersi sulle generose fessure. Sosta oltre un piccolo mugo (chiodo con anello + spuntone) 50 m, III, IV.
L2. Seguire la fessurazione ora in centro placca (chiodo) fino al suo termine (chiodo), qui si attraversa a destra in aderenza (V-) per prendere il diedro che si segue fino alla cengia ghiaiosa. Sosta su 2 chiodi. 50 m.
L3. Salire in verticale su placca aperta (2 chiodi) per poi spostarsi in diedro a destra (chiodo), fino ad uscire poco sotto alla cima dove si sosta su spuntone. 40 m, IV.

Discesa: raggiunta la cima Prà della Baziva per breve cresta si continua per traccia fino al sentiero 651 che si abbandona subito per il n° 66 della Val Campione, il quale permette di perdere velocemente quota tra i mughi. All'intersezione con il n° 652 prendere quest'ultimo verso sinistra e raggiungere il parcheggio per ombrosa faggeta.

La parete con il tracciato di Tangram non ancora verificato


La cima Prà della Baziva

L3

L2

L1

Attacco

Acquasantiera

Cresta del Gal

Cresta del Gal

Torri della Cresta del Gal


Placca chiave del Vajo Paradiso

Punto in cui si abbandona il vajo

lunedì 18 agosto 2025

Agner, Spigolo Nord "Gilberti-Soravito" (1600 m, VI-)

Zona: Valle di S.Lucano
Sviluppo: circa 1600 m
Esposizione: NW
Tempo: 12-18 h
Difficoltà: VI-
Discesa: a piedi
Materiale: NDA, serie di friend.
Protezioni: chiodi
Relazione consigliata

Introduzione storica

Come riportato nell'esaurita guida del 2004 "Agner-Croda Granda" di Paolo Mosca, l’itinerario viene descritto come «arrampicata classica di straordinaria bellezza, su ottima roccia, che sale per il più lungo spigolo delle Dolomiti. L’itinerario segue nella prima parte un grande avancorpo ricoperto di mughi sul filo dello spigolo, nella seconda parte la destra dello spigolo». Aggiungiamo noi che la "straordinaria bellezza" si può certamente ricondurre dalla seconda spalla, dove finalmente i pini mughi smettono di crescere.
La via fu aperta da Celso Gilberti e Oscar Soravito il 29 agosto 1932, con uno sviluppo di circa milleseicento metri, difficoltà valutate sul IV e V grado con passaggi di V+ e VI-, e un tempo di salita che per i primi salitori fu di circa dodici ore. La prima ripetizione avvenne il 6 e 7 agosto 1936 a opera di Giovanni De Col e Mariano Da Campo. La prima invernale si deve invece a Sepp Mayerl insieme a Reinhold e Hans Messner, che scalarono tra l’11 e il 13 febbraio 1967, seguiti dalla seconda invernale realizzata dal 26 al 28 dicembre 1974 da Franz Gruber, Heini Renzl e Franz Forster.
Non mancarono le salite in solitaria: la prima fu compiuta da M. Fabbri il 24 luglio 1956, seguita dall’impresa di Toni Marchesini l’11 giugno 1964 in sei ore. Qualche mese più tardi, il 1° settembre 1964, Claude Barbier realizzò la terza solitaria in appena quattro ore e dieci minuti, mentre la quarta toccò a Angelo Ursella il 15 giugno 1969, con un tempo di sette ore e trenta. Lo stesso anno, il 13 luglio, Enzo Cozzolino firmò la quinta solitaria in cinque ore e trenta. Il primato rimane quello di Ivo Ferrari, che riuscì a percorrere lo spigolo in solitaria in sole tre ore e quindici minuti.

Schizzo Santomaso

Le nostre impressioni

Per questa grande-course partiamo alle ore 13.00 della vigilia di Ferragosto dal fondovalle, a 800 m s.l.m., con 30°C: non credevamo che in San Lucano si potessero toccare simili temperature. Siamo in cordata da tre, per dividere peso, acqua (5 litri a testa) e lunghezze, e anche per non privarci del piacere di un comodo e romantico bivacco programmato. Il sentiero di avvicinamento, quasi tutto sotto il sole, richiede un’ora e venti fino alla forcella d’attacco, dove troviamo il mitico Berto Lagunàz seduto all’ombra su un sasso: ironico proprietario della Torre e dello Spìz (di Lagunàz), che sarebbero in vendita al miglior offerente. Dopo i convenevoli e qualche risata, ci ragguaglia sulla piramide verde e mugosa sulla quale corre la prima parte della via: «Vardè che non lè un bèl rampegàr», ci avverte, consigliandoci una variante di attacco più diretta alla seconda spalla, salendo da sinistra. Noi, fedeli al tracciato originale, scopriamo però che a differenza di vent’anni fa i mughi sono cresciuti in maniera spropositata: sulla prima spalla, quella del larice secco, non c’è più il bel prato morbido che ricordava il compagno di cordata Giovanni, ma soltanto tunnel intricati sotto ai mughi, scomodi da superare con la corda alla mano. Lo spigolo nord, che dal Col di Prà sembrava una linea netta e verticale, rivela qui la sua vera natura: un lungo serpentone fatto di avancorpi, costole, camini e placche che si inseguono senza continuità. Ogni lunghezza si apre su un’altra, senza mai un termine visibile:  un girone dantesco per alpinisti, dove al termine di ogni tiro sempre più stanchi ci si ritrova costretti a ripartire, in eterno. Le prime lunghezze filano comunque lisce, senza intoppi, salvo qualche indecisione su L6, che sembra essere stata colpita da una frana, fino a raggiungere la cengia alta con i punti da bivacco più spaziosi sotto al fungo di roccia. Arriviamo alle 21, con la frontale accesa. La notte passa serena e riposante, a parte un breve temporale dall’una alle due: ci ripariamo sotto un masso e torniamo a dormire, mentre i ghiri si aggirano famelici, rosicchiando i contenitori del cibo lasciati incautamente fuori dagli zaini. Il secondo giorno inizia alle prime luci. Attraversiamo sotto la variante dei Triestini cercando il canale corretto. Qui vale la regola del “cercare il facile”, immaginando di salire con gli scarponi, e in effetti noi indossiamo ancora le scarpe da avvicinamento. Giunti a una cengia evidente che taglia a metà tutta la parete ovest, la cui sosta è contraddistinta da uno spit di un recente soccorso, puntiamo la fessura-camino evidente, che diventa un riferimento prezioso nel mare di placche. Sopra, le difficoltà calano sensibilmente, e con lunghi tiri raggiungiamo la famosa fessura di “quarto più sostenuto”, il primo vero tiro di soddisfazione: qui Daniele sale da primo, affrontando con decisione la lunghezza continua e sostenuta. Seguiamo poi il traverso per imboccare la fessura chiave con i cunei, che prosegue anche oltre, dove veniamo investiti da due temporali in rapida successione, con pioggia e grandine che ci costringono a rallentare, ma non a fermarci, con cautela, avendo già superato il tratto chiave. Giunti all’ultimo tiro, preferiamo proseguire sulla costola rocciosa piuttosto che entrare nell’umido canale: in breve siamo sull’ampia terrazza ghiaiosa che sostiene la piramide sommitale del "Gigante di pietra", con già in vista i pioli della ferrata che in venti minuti conducono al bivacco Biasin, ancora fresco di vernice per il 150° anniversario della via normale. Dopo la sempre interminabile ferrata del canalone in discesa giungiamo finalmente al Rifugio Scarpa, accolti calorosamente dall’amico e gestore Alessandro, che ci annaffia di "radler" a sancire la fine di una lunga giornata.

Avvicinamento sotto sole cocente

Prima spalla, si procede sotto i mughi

verso la seconda spalla

breve crestina

Primo passo di V

Secondo passo di V

Bivacco

Alla ricerca del giusto canale

Il camino giusto 

Tiro chiave: l'unico unto della via

Dopo il doppio temporale, gli ultimi tiri bagnati

Sulla terrazza, in direzione della ferrata di discesa