di Bepi Pellegrinon
(pubblicato su "Agner, il gigante di pietra" 1983)
Era, quindi, naturale che un problema affascinante, come quello dello spigolo dell’Agnèr, richiamasse l’attenzione delle più forti cordate.
Nel luglio del 1932 un serio tentativo vide a protagonisti l’agordino Giovanni Andrich ed il bellunese Ernani Faè. Il primo, era il prediletto compagno di cordata di Attilio Tissi, uno dei più forti scalatori dell’epoca, assieme al quale aveva compiuto la prima ripetizione italiana della via Solleder-Lettenbauer, sulla parete NO della Civetta ed aperto alcune difficilissime vie nuove. Il secondo, che sarebbe stato, negli anni successivi, protagonista, nella cordata di Alvise Andrich, di alcune brillantissime conquiste, aveva, fra l’altro, già al suo attivo la ripetizione della stessa Solleder.
Andrich e Faè affrontarono lo spigolo, senza ricognizioni preliminari e, quindi, con una notevole incertezza sul percorso da seguire, per raggiungere il tratto superiore, dove, evidentemente, si concentravano le maggiori incognite. Essi attaccarono notevolmente più a sinistra dell’attuale percorso, in prossimità della grande gola, che corrisponde anche all’attacco della via della parete Nord. Di lì, si portarono gradualmente verso destra, sino a raggiungere il filo dello spigolo, già a notevole altezza. Secondo quanto ci ricordava Giovanni Andrich, poco prima della sua scomparsa (1972), essi dovettero vincere difficoltà assai forti (a suo giudizio, anche estreme), su rocce infide e, pertanto, quando pervennero sul percorso più logico, erano già notevolmente affaticati. Inoltre, il materiale a loro disposizione era alquanto scarso. Poterono, però, farsi un’idea abbastanza chiara del tratto chiave, al quale erano giunti molto prossimi e, soprattutto, poterono individuare il percorso più naturale e logico dei due terzi inferiori, fra l’altro più diretto e prossimo al filo dello spigolo, che seguirono nella discesa.
Fu così che, alla fine di agosto, reduce dalla scalata del Pan di Zucchero Giovanni Andrich ricevette la visita dei friulani Celso Gilberti ed Oscar Soravito, che gli manifestarono la loro intenzione di affrontare il problema dello spigolo dell’Agnèr e gli chiesero notizie sul suo tentativo.
Andrich, come tutti gli alpinisti del suo e di ogni tempo, sentiva profondamente lo spirito di emulazione e competizione e non poteva evidentemente rallegrarlo il fatto che una così agguerrita cordata si accingesse, con ogni probabilità, a soffiare una prima da lui ambita e già sofferta. Tuttavia, e non è il solo episodio del genere, accaduto a quell’epoca e di quella scuola - non solo non ne nacquero polemiche alpinistiche, rancori e, magari, tentativi di in qualche modo sabotare la concorrenza (come non di rado avviene ai giorni nostri, talvolta sino ed oltre i limiti del codice penale), ma il generoso Andrich fu prodigo di informazioni e consigli preziosi agli amici-rivali. Se ben ricordiamo, li accompagnò addirittura, con la sua auto, a Col de Pra, in vista dello spigolo e lo stesso Soravito, nella sua rievocazione di trent’anni dopo, parla di «alcune indicazioni dateci da Giovanni Andrich su un precedente tentativo».
Resta, comunque, un episodio significativo, che sta ad indicare la nobiltà, signorilità e lealtà di una classe di alpinisti, che, prima che grandi atleti, erano veri uomini, nel senso più pieno del termine.
Ciò che colpisce, nell’impresa di Gilberti e Soravito, è la grande sicurezza nell’individuare la via e la rapidità di esecuzione di una scalata di tanto sviluppo.
La spiegazione è duplice. In primo luogo, la grande classe di una cordata perfettamente allenata ed affiatata, guidata da un autentico fuoriclasse, sotto il profilo atletico, morale ed intellettuale, come Celso Gilberti. Friulani entrambi, la loro formazione alpinistica si era compiuta su terreno particolarmente aspro, come quello delle Alpi Carniche e Giulie, caratterizzate dagli approcci lunghi, scomodi, in luoghi spesso remoti, dalla roccia imprevedibile, a volte compatta, a volte friabile, bagnata, coperta di muschio od erbe insidiose. Non erano, quindi, uomini da timore reverenziale, né di fronte alla severa imponenza dell’Agnèr, né sul complesso ed insidioso zoccolo, né sul tratto chiave superiore, impressionante ed enigmatico.
Senza nulla togliere all’indiscusso valore dei primi salitori, non vi è, però, dubbio che le notizie ed i consigli di Giovanni Andrich furono preziosi e tali da risparmiare non poche incertezze e non poco dispendio di energie fisiche e psichiche.
Scrive Oscar Soravito nella sua rievocazione «Monte Agnèr - Trent’anni dopo» (in «Rivista Mensile» del C.A.I., n. 11 novembre 1964):
«Il 29 agosto 1932, alle ore tre del mattino, Gilberti ed io, lasciavamo Col di Prà diretti allo spigolo dell’Agnèr. Non avevamo mai visto da vicino la montagna, che presenta un salto di 1600 metri dalla base ed un dislivello di oltre 2200 metri dal fondovalle; unico punto di riferimento preciso una fotografia comperata il giorno prima ad Agordo ed alcune indicazioni dateci da Giovanni Andrich su un precedente tentativo.
Come equipaggiamento avevamo una corda di canapa di 40 metri da 12 mm, ed un cordino da 8 mm pure di 40 metri; queste corde erano buone, ma non valevano certamente quelle attuali di fibra sintetica più leggere e resistenti; esse poi avevano il gravissimo difetto di diventare rigide se bagnate, rendendo difficoltose, se non impossibili, le manovre di assicurazione e di corda doppia: il maltempo, pertanto, rappresentava una minaccia ben più grave di quanto oggi avviene, e questo fattore aveva un notevole valore psicologico. Dieci moschettoni e quindici chiodi: allora si chiodava poco, lo stretto necessario per l’assicurazione; in questa lunga arrampicata, con tutte le incognite di una prima salita ed il forzamento di molti passaggi della massima difficoltà, abbiamo impiegato in tutto una dozzina di chiodi, quasi tutti levati. Calzavamo pedule in pelle scamosciata con suola di feltro pressato (manchon): avevano il vantaggio di essere leggere e di permettere una grande sensibilità sulla pianta del piede e sugli appigli arrotondati, ma per contro l’adesione era minore e non mordevano di punta; specie sugli appigli minimi non facevano presa, tanto che oggi l’arrampicare con gli scarponi gommati, a suola rigida, permette possibilità che una volta non esistevano; le pedule inoltre duravano poco, tanto che dopo un’arrampicata lunga, con una discesa disagevole come questa, andavano regolarmente fuori uso. Completavano l’equipaggiamento due sacchi da bivacco in seta gommata, una lampada, maglioni di ricambio, ecc.; il tutto contenuto in un sacco da montagna portato per tutta la salita sulle spalle di chi scrive, quale incomodo, sgradito, ma necessario compagno di viaggio.
Ci accompagnava fino all’attacco un vecchio boscaiolo del posto per guidarci nella notte attraverso le incerte tracce di sentiero dei boschi dell’approccio e per riportare alla base gli scarponi chiodati. Lo ricordo ancora, paterno nei suoi consigli di prudenza; mancante di una mano, reggeva col moncherino una lanterna e si cacciava con decisione attraverso sterpaglie, arbusti e ramaglie del bosco carico di rugiada.
Era giorno appena fatto quando attaccammo. Fu una rapida velocissima cavalcata. Fortuna, abilità, intuito, affiatamento della cordata, freschezza atletica furono i fattori del successo. In meno di cinque ore superammo i primi 1000 metri di dislivello procedendo appaiati senza assicurazione sui tratti di media difficoltà. Prendemmo fiato: sopra, lo spigolo si raddrizzava verticale, le rocce apparivano lisce, bianche, senza risposta ai nostri interrogativi di una direttrice di salita; c’erano ancora 600 metri di arrampicata, qualche cosa come una parete Sud della Marmolada oppure una parete Nord della Cima di Riofreddo. Studiammo la situazione prima dell’attacco decisivo: impossibile girare lo spigolo a sinistra: a destra vi erano ben poche possibilità, anche se la visuale era impedita. Continuando diritti si potevano salire 50-60 metri, ma poi? Poi, incisa dietro un terrazzino e nascosta alla vista, c’era una fessura strapiombante alta 20 metri, ed appena sopra una parete liscia di rara bellezza che permetteva di superare, con estrema difficoltà, la prima incognita delle difficoltà. Ma ormai avevamo la netta sensazione di poter passare e proseguimmo più che mai decisi e sicuri.
Fummo felici in vetta? Quali furono le nostre sensazioni? Quali i nostri pensieri? Ma!... Difficile dirlo. La tensione nervosa, lo sforzo fisico, la necessità di iniziare subito la discesa che non conoscevamo, non ci devono avere lasciato modo di approfondire il nostro stato d’animo. Ma solo certi di avere vissuto una magnifica avventura, librati nel cielo, in ambiente di sovrumana bellezza; e questa nostra certezza derivava non solo da un fatto mentale, che interessa il cervello, ma da tutto il nostro essere in unisono con la natura.
Impiegammo complessivamente ore 10,40 dall’attacco alla vetta, con ore 9,15 di arrampicata effettiva. Partiti dal Col di Prà alle ore 3, abbiamo attaccato alle ore 5,15, arrivando in vetta alle 15,55; scesi per la via normale eravamo a Frassené ben prima delle ore 19 per arrivare con la corriera ad Agordo alle ore 19,20.
Con questa grande ascensione, Celso Gilberti aveva toccato il culmine della sua straordinaria carriera di alpinista. Egli avrebbe concluso la stagione alpinistica 1932 con una nuova bella prima, ancora in compagnia di Oscar Soravito, sulla parete E del Bila Peč (gruppo del Canin, Alpi Giulie). Poi, l’11 giugno 1933, sulla parete E della Paganella, presso Trento, la sua fiorente giovinezza veniva tragicamente stroncata, a soli ventidue anni. Nato nel 1911, Celso Gilberti aveva sentito assai precocemente l’attrazione per la montagna: del 1927, a soli sedici anni, è la sua prima via nuova, sulla Torre NE dei Fulmini di Popera. Da allora, in soli sei anni di attività realizzò ben 46 vie nuove o prime assolute e non meno di un centinaio di importanti ripetizioni, in tutte le Alpi, dalle Giulie, alle Occidentali. Le sue vie sono, spesso, capolavori di intuizione e di eleganza. Così, ad esempio, il trittico del Mangart: parete N della Veunza, spigolo N del Piccolo Mangart, direttissima al Mangart. Nelle Dolomiti, fra molte grandi imprese, due fanno particolarmente spicco. L’una è quella dell’Agnèr, l’altra, realizzata l’anno precedente, in cordata con Ettore Castiglioni, è la grandiosa parete O della Busazza, alta più di 1000 m. Un’arrampicata straordinaria, per la continuità delle difficoltà, ancora oggi considerate pressoché al limite dell’arrampicata libera, realizzata con un minimo impiego di chiodi, usati, peraltro, solo per assicurazione. Un sesto grado dell’epoca.
Pur nel breve arco di tempo concessogli dal destino, la sua attività spaziò, dalle predilette Giulie, Carniche e Dolomiti, fino al Monte Bianco, ove accarezzò il sogno della conquista della parete N delle Grandes Jorasses, uno dei massimi problemi alpini del tempo.
Se il ricordo delle sue ascensioni è già sufficiente a qualificarlo come alpinista eccezionale, non meno affascinante appare la personalità dell’uomo, attraverso il ricordo dei suoi compagni. Così lo descrive Giovanni Battista Spezzotti, in una commossa rievocazione («Celso Gilberti», Udine, 1959):
«Alto, slanciato, ben proporzionato nella figura aitante, volto delicato di linee ed armonico di tratti, fluido di quasi dorati capelli, vasta fronte pensosa. Due occhi chiari, profondi tralucevano la dolcezza e l’integrità dello spirito, e neppure la lieve ombra di malinconia, che sembrava sfiorarli, valeva a nascondere il lampo metallico dell’indomabile energia che animava quel grande sognante fanciullo.
Fiero, indipendente s’ancorava ad un individualismo, all’apparenza, spietato; altro non era invece che naturale portato di una volontà granitica nel fervido, ma latente, calore di una intensa passionalità, fiorito sboccio di un animo generoso, ma riservato... Precocemente maturato nel carattere e nella volontà, difeso dall’austerità di un costume di consapevole dignità e fierezza, fu attratto per naturale elezione all’alpinismo di alto stile e di grandissimo impegno, nella più moderna ed aggiornata delle concezioni».
Un altro sommo alpinista di quel tempo, il triestino Emilio Comici, scrisse che Celso Gilberti era stato «il vero Cavaliere della Montagna, veracemente il più puro ed il più modesto» ch’egli avesse conosciuto, «arrampicatore formidabile, fra i migliori, e chissà forse il migliore».
Il suo compagno di cordata dell’Agnèr e di molte altre imprese, Oscar Soravito, ripeté la grande ascensione trent’anni esatti più tardi, il 27-28 agosto 1962, assieme a Piero Villaggio e con una nuova difficile variante diretta. Ciò gli offrì lo spunto per una rievocazione, dalla quale abbiamo già tratto il racconto della prima ascensione, riportato poco sopra.
Soravito, nella sua rievocazione, traccia un ritratto particolarmente commosso del grande compagno caduto, che egli definisce «leggendario eroe della montagna, carissimo indimenticabile amico», che, a trent’anni di distanza non esita a definire «il più forte alpinista italiano dell’epoca».
Anche Soravito, accanto all’eccezionale abilità alpinistica di Gilberti, insiste nel sottolinearne la eletta personalità umana: «Mente creativa di vaste vedute, una grande gentilezza d’animo ed una tagliente ferrea volontà; poi intelligenza, dinamismo, cultura umanistica e tecnica... La sua prematura dipartita, alla vigilia di discutere la tesi di laurea al Politecnico di Milano, è stata una perdita irreparabile...».