martedì 2 settembre 2025

La prima salita dello spigolo Nord dell'Agner

Interessantissimo capitolo, come del resto lo sono tutti quelli di questa pregiata edizione dedicata alle prime e più importanti ascensioni del gruppo. L’opera accompagna il lettore dalle radici etimologiche della toponomastica locale, alle leggende della Valle di S.Lucano, fino all’“Agner dei giorni nostri”, cioè al 1983. Chi ha la fortuna di potersene ancora procurare una copia non se la lasci sfuggire.

"Lo spigolo Nord"
di Bepi Pellegrinon
(pubblicato su "Agner, il gigante di pietra" 1983)

Agli inizi degli anni 30, la stagione d’oro del 6° grado era nel suo pieno fiorire, anche nelle Dolomiti. Principali protagonisti ne erano, ormai, gli alpinisti dolomitici italiani, della nuova generazione.

Era, quindi, naturale che un problema affascinante, come quello dello spigolo dell’Agnèr, richiamasse l’attenzione delle più forti cordate.

Nel luglio del 1932 un serio tentativo vide a protagonisti l’agordino Giovanni Andrich ed il bellunese Ernani Faè. Il primo, era il prediletto compagno di cordata di Attilio Tissi, uno dei più forti scalatori dell’epoca, assieme al quale aveva compiuto la prima ripetizione italiana della via Solleder-Lettenbauer, sulla parete NO della Civetta ed aperto alcune difficilissime vie nuove. Il secondo, che sarebbe stato, negli anni successivi, protagonista, nella cordata di Alvise Andrich, di alcune brillantissime conquiste, aveva, fra l’altro, già al suo attivo la ripetizione della stessa Solleder.

Andrich e Faè affrontarono lo spigolo, senza ricognizioni preliminari e, quindi, con una notevole incertezza sul percorso da seguire, per raggiungere il tratto superiore, dove, evidentemente, si concentravano le maggiori incognite. Essi attaccarono notevolmente più a sinistra dell’attuale percorso, in prossimità della grande gola, che corrisponde anche all’attacco della via della parete Nord. Di lì, si portarono gradualmente verso destra, sino a raggiungere il filo dello spigolo, già a notevole altezza. Secondo quanto ci ricordava Giovanni Andrich, poco prima della sua scomparsa (1972), essi dovettero vincere difficoltà assai forti (a suo giudizio, anche estreme), su rocce infide e, pertanto, quando pervennero sul percorso più logico, erano già notevolmente affaticati. Inoltre, il materiale a loro disposizione era alquanto scarso. Poterono, però, farsi un’idea abbastanza chiara del tratto chiave, al quale erano giunti molto prossimi e, soprattutto, poterono individuare il percorso più naturale e logico dei due terzi inferiori, fra l’altro più diretto e prossimo al filo dello spigolo, che seguirono nella discesa.


Giovanni Andrich ebbe la netta sensazione, anzi la certezza che, ad un secondo tentativo, la conquista sarebbe felicemente riuscita e ne parlò al suo fortissimo amico Tissi. Questi, però, si era già impegnato, con Domenico Rudatis per un’altra audace impresa, la parete NO del Pan di Zucchero della Civetta, che riuscì felicemente, in cordata con lo stesso Andrich.

Fu così che, alla fine di agosto, reduce dalla scalata del Pan di Zucchero Giovanni Andrich ricevette la visita dei friulani Celso Gilberti ed Oscar Soravito, che gli manifestarono la loro intenzione di affrontare il problema dello spigolo dell’Agnèr e gli chiesero notizie sul suo tentativo.

Andrich, come tutti gli alpinisti del suo e di ogni tempo, sentiva profondamente lo spirito di emulazione e competizione e non poteva evidentemente rallegrarlo il fatto che una così agguerrita cordata si accingesse, con ogni probabilità, a soffiare una prima da lui ambita e già sofferta. Tuttavia, e non è il solo episodio del genere, accaduto a quell’epoca e di quella scuola - non solo non ne nacquero polemiche alpinistiche, rancori e, magari, tentativi di in qualche modo sabotare la concorrenza (come non di rado avviene ai giorni nostri, talvolta sino ed oltre i limiti del codice penale), ma il generoso Andrich fu prodigo di informazioni e consigli preziosi agli amici-rivali. Se ben ricordiamo, li accompagnò addirittura, con la sua auto, a Col de Pra, in vista dello spigolo e lo stesso Soravito, nella sua rievocazione di trent’anni dopo, parla di «alcune indicazioni dateci da Giovanni Andrich su un precedente tentativo».

Resta, comunque, un episodio significativo, che sta ad indicare la nobiltà, signorilità e lealtà di una classe di alpinisti, che, prima che grandi atleti, erano veri uomini, nel senso più pieno del termine.

Ciò che colpisce, nell’impresa di Gilberti e Soravito, è la grande sicurezza nell’individuare la via e la rapidità di esecuzione di una scalata di tanto sviluppo.
La spiegazione è duplice. In primo luogo, la grande classe di una cordata perfettamente allenata ed affiatata, guidata da un autentico fuoriclasse, sotto il profilo atletico, morale ed intellettuale, come Celso Gilberti. Friulani entrambi, la loro formazione alpinistica si era compiuta su terreno particolarmente aspro, come quello delle Alpi Carniche e Giulie, caratterizzate dagli approcci lunghi, scomodi, in luoghi spesso remoti, dalla roccia imprevedibile, a volte compatta, a volte friabile, bagnata, coperta di muschio od erbe insidiose. Non erano, quindi, uomini da timore reverenziale, né di fronte alla severa imponenza dell’Agnèr, né sul complesso ed insidioso zoccolo, né sul tratto chiave superiore, impressionante ed enigmatico.
Senza nulla togliere all’indiscusso valore dei primi salitori, non vi è, però, dubbio che le notizie ed i consigli di Giovanni Andrich furono preziosi e tali da risparmiare non poche incertezze e non poco dispendio di energie fisiche e psichiche.

Scrive Oscar Soravito nella sua rievocazione «Monte Agnèr - Trent’anni dopo» (in «Rivista Mensile» del C.A.I., n. 11 novembre 1964):
«Il 29 agosto 1932, alle ore tre del mattino, Gilberti ed io, lasciavamo Col di Prà diretti allo spigolo dell’Agnèr. Non avevamo mai visto da vicino la montagna, che presenta un salto di 1600 metri dalla base ed un dislivello di oltre 2200 metri dal fondovalle; unico punto di riferimento preciso una fotografia comperata il giorno prima ad Agordo ed alcune indicazioni dateci da Giovanni Andrich su un precedente tentativo.

Come equipaggiamento avevamo una corda di canapa di 40 metri da 12 mm, ed un cordino da 8 mm pure di 40 metri; queste corde erano buone, ma non valevano certamente quelle attuali di fibra sintetica più leggere e resistenti; esse poi avevano il gravissimo difetto di diventare rigide se bagnate, rendendo difficoltose, se non impossibili, le manovre di assicurazione e di corda doppia: il maltempo, pertanto, rappresentava una minaccia ben più grave di quanto oggi avviene, e questo fattore aveva un notevole valore psicologico. Dieci moschettoni e quindici chiodi: allora si chiodava poco, lo stretto necessario per l’assicurazione; in questa lunga arrampicata, con tutte le incognite di una prima salita ed il forzamento di molti passaggi della massima difficoltà, abbiamo impiegato in tutto una dozzina di chiodi, quasi tutti levati. Calzavamo pedule in pelle scamosciata con suola di feltro pressato (manchon): avevano il vantaggio di essere leggere e di permettere una grande sensibilità sulla pianta del piede e sugli appigli arrotondati, ma per contro l’adesione era minore e non mordevano di punta; specie sugli appigli minimi non facevano presa, tanto che oggi l’arrampicare con gli scarponi gommati, a suola rigida, permette possibilità che una volta non esistevano; le pedule inoltre duravano poco, tanto che dopo un’arrampicata lunga, con una discesa disagevole come questa, andavano regolarmente fuori uso. Completavano l’equipaggiamento due sacchi da bivacco in seta gommata, una lampada, maglioni di ricambio, ecc.; il tutto contenuto in un sacco da montagna portato per tutta la salita sulle spalle di chi scrive, quale incomodo, sgradito, ma necessario compagno di viaggio.

Ci accompagnava fino all’attacco un vecchio boscaiolo del posto per guidarci nella notte attraverso le incerte tracce di sentiero dei boschi dell’approccio e per riportare alla base gli scarponi chiodati. Lo ricordo ancora, paterno nei suoi consigli di prudenza; mancante di una mano, reggeva col moncherino una lanterna e si cacciava con decisione attraverso sterpaglie, arbusti e ramaglie del bosco carico di rugiada.

Era giorno appena fatto quando attaccammo. Fu una rapida velocissima cavalcata. Fortuna, abilità, intuito, affiatamento della cordata, freschezza atletica furono i fattori del successo. In meno di cinque ore superammo i primi 1000 metri di dislivello procedendo appaiati senza assicurazione sui tratti di media difficoltà. Prendemmo fiato: sopra, lo spigolo si raddrizzava verticale, le rocce apparivano lisce, bianche, senza risposta ai nostri interrogativi di una direttrice di salita; c’erano ancora 600 metri di arrampicata, qualche cosa come una parete Sud della Marmolada oppure una parete Nord della Cima di Riofreddo. Studiammo la situazione prima dell’attacco decisivo: impossibile girare lo spigolo a sinistra: a destra vi erano ben poche possibilità, anche se la visuale era impedita. Continuando diritti si potevano salire 50-60 metri, ma poi? Poi, incisa dietro un terrazzino e nascosta alla vista, c’era una fessura strapiombante alta 20 metri, ed appena sopra una parete liscia di rara bellezza che permetteva di superare, con estrema difficoltà, la prima incognita delle difficoltà. Ma ormai avevamo la netta sensazione di poter passare e proseguimmo più che mai decisi e sicuri.

Fummo felici in vetta? Quali furono le nostre sensazioni? Quali i nostri pensieri? Ma!... Difficile dirlo. La tensione nervosa, lo sforzo fisico, la necessità di iniziare subito la discesa che non conoscevamo, non ci devono avere lasciato modo di approfondire il nostro stato d’animo. Ma solo certi di avere vissuto una magnifica avventura, librati nel cielo, in ambiente di sovrumana bellezza; e questa nostra certezza derivava non solo da un fatto mentale, che interessa il cervello, ma da tutto il nostro essere in unisono con la natura.

Impiegammo complessivamente ore 10,40 dall’attacco alla vetta, con ore 9,15 di arrampicata effettiva. Partiti dal Col di Prà alle ore 3, abbiamo attaccato alle ore 5,15, arrivando in vetta alle 15,55; scesi per la via normale eravamo a Frassené ben prima delle ore 19 per arrivare con la corriera ad Agordo alle ore 19,20.

Con questa grande ascensione, Celso Gilberti aveva toccato il culmine della sua straordinaria carriera di alpinista. Egli avrebbe concluso la stagione alpinistica 1932 con una nuova bella prima, ancora in compagnia di Oscar Soravito, sulla parete E del Bila Peč (gruppo del Canin, Alpi Giulie). Poi, l’11 giugno 1933, sulla parete E della Paganella, presso Trento, la sua fiorente giovinezza veniva tragicamente stroncata, a soli ventidue anni. Nato nel 1911, Celso Gilberti aveva sentito assai precocemente l’attrazione per la montagna: del 1927, a soli sedici anni, è la sua prima via nuova, sulla Torre NE dei Fulmini di Popera. Da allora, in soli sei anni di attività realizzò ben 46 vie nuove o prime assolute e non meno di un centinaio di importanti ripetizioni, in tutte le Alpi, dalle Giulie, alle Occidentali. Le sue vie sono, spesso, capolavori di intuizione e di eleganza. Così, ad esempio, il trittico del Mangart: parete N della Veunza, spigolo N del Piccolo Mangart, direttissima al Mangart. Nelle Dolomiti, fra molte grandi imprese, due fanno particolarmente spicco. L’una è quella dell’Agnèr, l’altra, realizzata l’anno precedente, in cordata con Ettore Castiglioni, è la grandiosa parete O della Busazza, alta più di 1000 m. Un’arrampicata straordinaria, per la continuità delle difficoltà, ancora oggi considerate pressoché al limite dell’arrampicata libera, realizzata con un minimo impiego di chiodi, usati, peraltro, solo per assicurazione. Un sesto grado dell’epoca.

Pur nel breve arco di tempo concessogli dal destino, la sua attività spaziò, dalle predilette Giulie, Carniche e Dolomiti, fino al Monte Bianco, ove accarezzò il sogno della conquista della parete N delle Grandes Jorasses, uno dei massimi problemi alpini del tempo.

Se il ricordo delle sue ascensioni è già sufficiente a qualificarlo come alpinista eccezionale, non meno affascinante appare la personalità dell’uomo, attraverso il ricordo dei suoi compagni. Così lo descrive Giovanni Battista Spezzotti, in una commossa rievocazione («Celso Gilberti», Udine, 1959):
«Alto, slanciato, ben proporzionato nella figura aitante, volto delicato di linee ed armonico di tratti, fluido di quasi dorati capelli, vasta fronte pensosa. Due occhi chiari, profondi tralucevano la dolcezza e l’integrità dello spirito, e neppure la lieve ombra di malinconia, che sembrava sfiorarli, valeva a nascondere il lampo metallico dell’indomabile energia che animava quel grande sognante fanciullo.
Fiero, indipendente s’ancorava ad un individualismo, all’apparenza, spietato; altro non era invece che naturale portato di una volontà granitica nel fervido, ma latente, calore di una intensa passionalità, fiorito sboccio di un animo generoso, ma riservato... Precocemente maturato nel carattere e nella volontà, difeso dall’austerità di un costume di consapevole dignità e fierezza, fu attratto per naturale elezione all’alpinismo di alto stile e di grandissimo impegno, nella più moderna ed aggiornata delle concezioni».

Un altro sommo alpinista di quel tempo, il triestino Emilio Comici, scrisse che Celso Gilberti era stato «il vero Cavaliere della Montagna, veracemente il più puro ed il più modesto» ch’egli avesse conosciuto, «arrampicatore formidabile, fra i migliori, e chissà forse il migliore».

Il suo compagno di cordata dell’Agnèr e di molte altre imprese, Oscar Soravito, ripeté la grande ascensione trent’anni esatti più tardi, il 27-28 agosto 1962, assieme a Piero Villaggio e con una nuova difficile variante diretta. Ciò gli offrì lo spunto per una rievocazione, dalla quale abbiamo già tratto il racconto della prima ascensione, riportato poco sopra.
Soravito, nella sua rievocazione, traccia un ritratto particolarmente commosso del grande compagno caduto, che egli definisce «leggendario eroe della montagna, carissimo indimenticabile amico», che, a trent’anni di distanza non esita a definire «il più forte alpinista italiano dell’epoca».

Anche Soravito, accanto all’eccezionale abilità alpinistica di Gilberti, insiste nel sottolinearne la eletta personalità umana: «Mente creativa di vaste vedute, una grande gentilezza d’animo ed una tagliente ferrea volontà; poi intelligenza, dinamismo, cultura umanistica e tecnica... La sua prematura dipartita, alla vigilia di discutere la tesi di laurea al Politecnico di Milano, è stata una perdita irreparabile...».

lunedì 25 agosto 2025

Monte Baldo, Via Madrigal Meridian (140 m, V-)

Zona: Cima Prà della Baziva (2207 m)
Sviluppo: 140 m
Esposizione: W
Tempo: 4 h
Difficoltà: V- 1 passo
Discesa: a piedi
Materiale:  singola, friend & nuts, chiodi inutili

La Cima Prà della Baziva rappresenta la seconda elevazione della catena del Monte Baldo, situata tra Cima Valdritta e Punta Pettorina. Sul versante ovest presenta alcuni scivoli rocciosi, moderatamente inclinati e lunghi un centinaio di metri. In passato, secondo gli apritori, questi tratti sono stati probabilmente percorsi come terreno di allenamento da cordate locali.
Nell’estate del 1990 Davide Martini e Alessandro Savoia, entrambi del CAI di Mantova, riscoprirono questi divertenti scivoli, li attrezzarono e ne pubblicarono la relazione sulla Rivista del CAI, tracciando due vie: Tangram e Madrigal Meridian. La prima, più facile, corre lungo il bordo sinistro della placconata rotta, misura circa 150 metri e propone difficoltà discontinue fino al IV. La seconda, che affronta la placca centrale più compatta, presenta un passo di V- con uno sviluppo analogo. Federico Allegrini, che conservava memoria di alcune ripetizioni di quegli anni e aveva ritrovato lo schizzo originale disegnato di suo pugno, ha riacceso il mio interesse e si è proposto per una ripetizione, a distanza di 35 anni, della più interessante dal punto di vista alpinistico: Madrigal Meridian. L’esperienza, compreso l'avvicinamento per il divertente Vajo Paradiso e Cresta del Gal,  ha confermato il valore della via, rivelatasi molto ben proteggibile con friends. Abbiamo rinvenuto tre chiodi di sosta e cinque chiodi di passaggio, esattamente come riportato nello schizzo originale. La roccia, in generale solida e affidabile, viene mantenuta ripulita dalle valanghe; solo nei tratti più appoggiati ed erbosi si incontra qualche piccolo detrito.

Accesso: Proveniendo da Ferrara di Monte Baldo si oltrepassa Cavallo di Novezza e si parcheggia lungo la SP3 nella piccola area dove parte il sentiero n°652, il quale sarà il nostro rientro. Si prosegue a piedi per strada asfaltata fino ad incontrare sul lato sinistro un foro di scolo con tre sbarre metalliche e recintato da una ringhiera in ferro: qui inizia il Vajo Paradiso. Lo si segue nel fondo roccioso per ripulito ed appigliato con passaggi di II-III fino all'altezza della prima evidente torre della Cresta del Gal, visibile sulla destra, guadagnando velocemente 100 metri di quota.
Si abbandona quindi il vajo per traccia a destra che cinge la torre sul lato sinistro, e seguendo sempre le tracce (passi di II), sempre fedelmente in cresta, si raggiunge il sentiero 651 a quota 2000 m. Lo si segue brevemente verso sud fino ad arrivare alla forcella di Val Fontanella dove sono visibili alcuni monotiri e dove è presente la famosa "acquasantiera". Si scende per ghiaione attraversando verso sinistra fino alla base delle placche ora ben visibili. Nel punto più basso attacca Tangram, si risale pochi metri verso la placca più compatta, sulla verticale di un tetto dove attacca Madrigal Meridian. 1 ora e 30.

Descrizione:
L1. Salire la placca sul suo margine sinistro per proteggersi sulle generose fessure. Sosta oltre un piccolo mugo (chiodo con anello + spuntone) 50 m, III, IV.
L2. Seguire la fessurazione ora in centro placca (chiodo) fino al suo termine (chiodo), qui si attraversa a destra in aderenza (V-) per prendere il diedro che si segue fino alla cengia ghiaiosa. Sosta su 2 chiodi. 50 m.
L3. Salire in verticale su placca aperta (2 chiodi) per poi spostarsi in diedro a destra (chiodo), fino ad uscire poco sotto alla cima dove si sosta su spuntone. 40 m, IV.

Discesa: raggiunta la cima Prà della Baziva per breve cresta si continua per traccia fino al sentiero 651 che si abbandona subito per il n° 66 della Val Campione, il quale permette di perdere velocemente quota tra i mughi. All'intersezione con il n° 652 prendere quest'ultimo verso sinistra e raggiungere il parcheggio per ombrosa faggeta.

La parete con il tracciato di Tangram non ancora verificato

La cima Prà della Baziva

L3

L2

L1

Attacco

Acquasantiera

Cresta del Gal

Cresta del Gal

Torri della Cresta del Gal


Placca chiave del Vajo Paradiso

Punto in cui si abbandona il vajo

lunedì 18 agosto 2025

Agner, Spigolo Nord "Gilberti-Soravito" (1600 m, VI-)

Zona: Valle di S.Lucano
Sviluppo: circa 1600 m
Esposizione: NW
Tempo: 12-18 h
Difficoltà: VI-
Discesa: a piedi
Materiale: NDA, serie di friend.
Protezioni: chiodi
Relazione consigliata

Introduzione storica

Come riportato nell'esaurita guida del 2004 "Agner-Croda Granda" di Paolo Mosca, l’itinerario viene descritto come «arrampicata classica di straordinaria bellezza, su ottima roccia, che sale per il più lungo spigolo delle Dolomiti. L’itinerario segue nella prima parte un grande avancorpo ricoperto di mughi sul filo dello spigolo, nella seconda parte la destra dello spigolo». Aggiungiamo noi che la "straordinaria bellezza" si può certamente ricondurre dalla seconda spalla, dove finalmente i pini mughi smettono di crescere.
La via fu aperta da Celso Gilberti e Oscar Soravito il 29 agosto 1932, con uno sviluppo di circa milleseicento metri, difficoltà valutate sul IV e V grado con passaggi di V+ e VI-, e un tempo di salita che per i primi salitori fu di circa dodici ore. La prima ripetizione avvenne il 6 e 7 agosto 1936 a opera di Giovanni De Col e Mariano Da Campo. La prima invernale si deve invece a Sepp Mayerl insieme a Reinhold e Hans Messner, che scalarono tra l’11 e il 13 febbraio 1967, seguiti dalla seconda invernale realizzata dal 26 al 28 dicembre 1974 da Franz Gruber, Heini Renzl e Franz Forster.
Non mancarono le salite in solitaria: la prima fu compiuta da M. Fabbri il 24 luglio 1956, seguita dall’impresa di Toni Marchesini l’11 giugno 1964 in sei ore. Qualche mese più tardi, il 1° settembre 1964, Claude Barbier realizzò la terza solitaria in appena quattro ore e dieci minuti, mentre la quarta toccò a Angelo Ursella il 15 giugno 1969, con un tempo di sette ore e trenta. Lo stesso anno, il 13 luglio, Enzo Cozzolino firmò la quinta solitaria in cinque ore e trenta. Il primato rimane quello di Ivo Ferrari, che riuscì a percorrere lo spigolo in solitaria in sole tre ore e quindici minuti.

Schizzo Santomaso

Le nostre impressioni

Per questa grande-course partiamo alle ore 13.00 della vigilia di Ferragosto dal fondovalle, a 800 m s.l.m., con 30°C: non credevamo che in San Lucano si potessero toccare simili temperature. Siamo in cordata da tre, per dividere peso, acqua (5 litri a testa) e lunghezze, e anche per non privarci del piacere di un comodo e romantico bivacco programmato. Il sentiero di avvicinamento, quasi tutto sotto il sole, richiede un’ora e venti fino alla forcella d’attacco, dove troviamo il mitico Berto Lagunàz seduto all’ombra su un sasso: ironico proprietario della Torre e dello Spìz (di Lagunàz), che sarebbero in vendita al miglior offerente. Dopo i convenevoli e qualche risata, ci ragguaglia sulla piramide verde e mugosa sulla quale corre la prima parte della via: «Vardè che non lè un bèl rampegàr», ci avverte, consigliandoci una variante di attacco più diretta alla seconda spalla, salendo da sinistra. Noi, fedeli al tracciato originale, scopriamo però che a differenza di vent’anni fa i mughi sono cresciuti in maniera spropositata: sulla prima spalla, quella del larice secco, non c’è più il bel prato morbido che ricordava il compagno di cordata Giovanni, ma soltanto tunnel intricati sotto ai mughi, scomodi da superare con la corda alla mano. Lo spigolo nord, che dal Col di Prà sembrava una linea netta e verticale, rivela qui la sua vera natura: un lungo serpentone fatto di avancorpi, costole, camini e placche che si inseguono senza continuità. Ogni lunghezza si apre su un’altra, senza mai un termine visibile:  un girone dantesco per alpinisti, dove al termine di ogni tiro sempre più stanchi ci si ritrova costretti a ripartire, in eterno. Le prime lunghezze filano comunque lisce, senza intoppi, salvo qualche indecisione su L6, che sembra essere stata colpita da una frana, fino a raggiungere la cengia alta con i punti da bivacco più spaziosi sotto al fungo di roccia. Arriviamo alle 21, con la frontale accesa. La notte passa serena e riposante, a parte un breve temporale dall’una alle due: ci ripariamo sotto un masso e torniamo a dormire, mentre i ghiri si aggirano famelici, rosicchiando i contenitori del cibo lasciati incautamente fuori dagli zaini. Il secondo giorno inizia alle prime luci. Attraversiamo sotto la variante dei Triestini cercando il canale corretto. Qui vale la regola del “cercare il facile”, immaginando di salire con gli scarponi, e in effetti noi indossiamo ancora le scarpe da avvicinamento. Giunti a una cengia evidente che taglia a metà tutta la parete ovest, la cui sosta è contraddistinta da uno spit di un recente soccorso, puntiamo la fessura-camino evidente, che diventa un riferimento prezioso nel mare di placche. Sopra, le difficoltà calano sensibilmente, e con lunghi tiri raggiungiamo la famosa fessura di “quarto più sostenuto”, il primo vero tiro di soddisfazione: qui Daniele sale da primo, affrontando con decisione la lunghezza continua e sostenuta. Seguiamo poi il traverso per imboccare la fessura chiave con i cunei, che prosegue anche oltre, dove veniamo investiti da due temporali in rapida successione, con pioggia e grandine che ci costringono a rallentare, ma non a fermarci, con cautela, avendo già superato il tratto chiave. Giunti all’ultimo tiro, preferiamo proseguire sulla costola rocciosa piuttosto che entrare nell’umido canale: in breve siamo sull’ampia terrazza ghiaiosa che sostiene la piramide sommitale del "Gigante di pietra", con già in vista i pioli della ferrata che in venti minuti conducono al bivacco Biasin, ancora fresco di vernice per il 150° anniversario della via normale. Dopo la sempre interminabile ferrata del canalone in discesa giungiamo finalmente al Rifugio Scarpa, accolti calorosamente dall’amico e gestore Alessandro, che ci annaffia di "radler" a sancire la fine di una lunga giornata.

Avvicinamento sotto sole cocente

Prima spalla, si procede sotto i mughi

verso la seconda spalla

breve crestina

Primo passo di V

Secondo passo di V

Bivacco

Alla ricerca del giusto canale

Il camino giusto 

Tiro chiave: l'unico unto della via

Dopo il doppio temporale, gli ultimi tiri bagnati

Sulla terrazza, in direzione della ferrata di discesa


mercoledì 6 agosto 2025

Campofontana: la Falesia del Torla

A pochi minuti dal Rifugio Monte Torla, nel territorio di Campofontana (Selva di Progno, VR), si trova la Falesia del Torla, una palestra di roccia immersa nei faggeti della Lessinia orientale, a quota 1.350 metri e a sbalzo sulla Val d'Illasi. Realizzata tra il 2019 e il 2020 grazie all’iniziativa di Marco Stoppele, alpinista e gestore dell'omonimo rifugio posto a poche centinaria di metri, con la collaborazione di Domenico Ghellere, Michele Campostrini e Nicola Aldegheri, la falesia è frutto di un lavoro di pulizia e chiodatura durato oltre un anno e mezzo. 

Oggi conta 24 itinerari attrezzati, adatti a climber di vari livelli, dai principianti ai più esperti. L’ambiente naturale è di grande valore paesaggistico e la posizione, esposta a ovest, permette di arrampicare comodamente nelle ore pomeridiane. La parete, composta principalmente da placche verticali di calcare marnoso nodulare a tacche e svasi, si asciuga velocemente dopo la pioggia, rendendola ideale per la stagione estiva, da maggio a ottobre.

L'accesso avviene dal paese di Campofontana, raggiungibile dalla Val d'Alpone o dalla Val d'Illasi, proseguire oltre la chiesa per circa 1 km verso località Pagani dove si parcheggia. Proseguire a piedi lungo la strada forestale passando per Madonna delle Lobbie fino al Rifugio Monte Torla (circa 30-40 minuti). Dal rifugio, seguire le indicazioni per la falesia: l’accesso avviene tramite una scalinata in discesa con corda fissa, che attraversa una suggestiva spaccatura nella roccia (la "Torla", da cui prende nome la falesia) antico passaggio pastorale all'alpeggio per gli abitanti delle frazioni sottostanti.

Le vie

Le vie si sviluppano dai 10 ai 30 metri, con gradi dal 4b al 7b. Essendo una falesia recente e non molto frequentata si consiglia di usare il caschetto in quanto qualche sasso potrebbe ancora staccarsi. Inoltre si invita a strappare qualche ciuffo di festuca che potrebbe nascondere prese o ostacolare l'arrampicata. Di seguito l’elenco completo degli itinerari, da sinistra, le più lontane dall'ingresso, a destra le più vicine alla scalinata.

  1. ANDROMEDA, 18 m, 6a+
  2. M87, 15 m, 7a
  3. SOLARIS, 15 m, 7b
  4. CASSIOPEA, 15 m, 6b+
  5. NICO, 18 m, 6b
  6. MATTY, 18 m, 6a
  7. SEMBRA FACILE, 18 m, 5b+
  8. EASTER EGG, 18 m, 6b
  9. DOMINI, 18 m, 6c
  10. MASCI VOLANTI, 18 m, 7c
  11. VOLO D'ANGELO, 10 m, 6b+
  12. MISTER WOLF, 25 m, 6c+
  13. SPIGOLO, 10 m, 5a
  14. SOTTO TETTO, 10 m, 5b
  15. TANA DEL LUPO, 25 m, ?
  16. BAGLIORE DI MAGGIO, 25 m, 6c
  17. BABY SITTER, 15 m, 4b+
  18. SCORPION, 25 m, 6c
  19. NEMICO SEPOLTO, 30 m, 6b+
  20. NIDO D'AQUILA, 30 m, 6b
  21. TORLA, 25 m, 4b
  22. TE PIASE, 10 m, 4b+
  23. FAGGIO, 20 m, 5a+
  24. VIPER, 15 m, 5a+
  25. EGANO, 15 m, 5a
Insegna originale dell'inaugurazione: i gradi sono sballati e si sono sedimentari poi come qui proposti 

Andromeda

Cassiopea


lunedì 4 agosto 2025

Stafflacher Wand: Via Im reich der sonne (VII-, 190 m, VI obb.)

Zona: St.Jodok am Brenner
Sviluppo: 190 m
Esposizione: SE
Tempo: 2 h
Difficoltà: VII-
Discesa: a piedi
Materiale: 
16 rinvii, singola
Protezioni: resinati

Relazione seguita

Sconfiniamo in Austria, anche se di pochi chilometri, alla ricerca di fresco e meteo stabile, e così sarà. Questa via esce dal cappello di Francesco, o meglio, dalla sua consumata guida "Tirol Plaisir". Arrivati nell’ameno paesino di St. Jodok am Brenner, la parete assolata non ci appare così invitante: sembra bassa e piena d’erba. Come possono starci nove lunghezze di corda? Siamo a mezz’ora da Innsbruck, ma il bel calcare delle falesie della capitale del Tirolo qui non si trova: scaleremo su gneiss, come fossimo a Valtournenche, ma a poco più di due ore da casa, e questo è già un valore aggiunto. La parete è attraversata, nella sua fascia alta, da una lunga ferrata, e le quattro vie che qui si sviluppano sono interamente attrezzate con resinati e soste inox da 12 mm Austrialpin. Oltre a qualche monotiro e a una via di drytooling, ci sembra che la valorizzazione di questa parete, che in Veneto sarebbe stata probabilmente ignorata, qui abbia preso una piega opposta, quasi esagerata, come una fiera dell'inox. Ma tant’è: non ci è dispiaciuto più di tanto.
La via e l’arrampicata si sviluppano talvolta con traversi per evitare le zolle erbose, il che costringe a mantenere i tiri brevi per limitare gli attriti. Tacche nette e svasi vanno per la maggiore, e lo spalmo di piedi è d’obbligo. La chiodatura, con resinati posati dall’alto, talvolta pecca in qualche passaggio, dove trovare una posizione favorevole per rinviare non è sempre immediato, ma nel complesso la definirei un’ottima esperienza fuori dal solito tran tran.

Accesso: Dal parcheggio della stazione posto oltre la chiesetta del paese, tornare indietro e seguire le indicazioni per la via ferrata. Passare sotto alla ferrovia quindi costeggiarla e passare di fianco ad una chiesetta e poi sotto a 2 case nel bosco. Salire quindi ripidamente fino all'attacco con targhetta. 15 minuti.

Descrizione:
L1-L2: subito un passo di VI umido, poi traverso a destra oltre un canale per uscire su uno spigolo, saltiamo la sosta per arrivare a quella sopra. Occhio agli attriti. 36 m VI.
L3-L4: Si attraversa la paretina a destra e poi si rimonta un bel pilastro che si aggira a destra. Unire i tiri è sconsigliabile per gli attriti. 40 m V+.
L5: Ancora di traverso a superare un camino, poi placca a svasetti fino ad una piccola cengia. 25 m VI-
L6: Sempre dritti per il muro. 18 m VI
L7: Ancora dritti superando un piccolo strapiombo, poi sosta nei pressi della ferrata. 22 m VI+
L8: Oltrepassare il cavo e poi leggermente a destra, rimontare la placca e poi traverso a sinistra a raggiungere la cengia.  22 m VI+
L9: Rimontare la rampa fin sotto al tetto di VI+, superato, placca facile e bombè chiave finale sotto alla croce. Oltrepassare la croce e sostare su larice. 30 m VII-

Discesa: oltrepassata la croce si continua per tracce nel bosco ripido fino a trovare il sentiero di rientro della ferrata che porta in discesa ad una strada forestale che conduce nei pressi dell'attacco. Evitare di scendere dalla ferrata, anche se più breve, per non trovare chi da li sta salendo.

L8

L5

L7

L8 partenza

La parete con le 2 croci. La nostra è quella di sx


lunedì 28 luglio 2025

Monte Cucco: Via Luc e Via Luis (5a, 90 m, 4b obb. )

Si tratta di due piacevoli short-climbs situate sulla placconata appoggiata alla destra della più nota Torre del Monte Cucco dove è presente una piccola statua del Redentore. Le vie sono ottimamente e generosamente protette con resinati inox, nonostante la presenza di numerose clessidre naturali. L’esposizione è ideale per l’estate: al sole rimane solo l’uscita dell’ultimo tiro, mentre il resto della parete resta in ombra. L’accesso è semplice e veloce: in 5 minuti dal parcheggio del campeggio "Cucco Base Camp" di Orco Feligno (consigliato anche per il soggiorno). Si oltrepassa una stazione del "Percorso Vita" e si segue una traccia sulla destra che porta rapidamente al settore Primi Passi. Da lì, si risale un breve canale a destra che conduce alla base delle vie. La discesa è comune e molto rapida, seguendo la linea della via "Diedro Canale": 2 calate da 30 metri in doppia.

Via LUC

Zona: Finale Ligure / Orco Feglino
Sviluppo: 80 m, 3L
Esposizione: NW
Tempo: 1 h
Difficoltà: 5a
Discesa: in doppia
Materiale: singola, 12 rinvii
Protezioni: resinati

La via a resinati più a destra della placca, contraddistinta da un grosso vecchio anello. Della placca è anche la più interessante dal punto di vista alpinistico e storico: aperta nel 1969 da A.Grillo e compagni. Il primo tiro è una placca verticale a buchi, il secondo segue un sistema di diedri fino alla cengia per sostare a destra. L'ultimo tiro vince il bel pilastro fessurato e verticale ben visibile anche dal campeggio. Per traccia a piedi si arriva alla doppia di calata posta a sinistra all'uscita del Diedro Canale.



Via LUIS

Zona: Finale Ligure / Orco Feglino
Sviluppo: 75 m, 3L
Esposizione: NW
Tempo: 1 h
Difficoltà: 5a
Discesa: in doppia
Materiale: singola, 10 rinvii, cordini.
Protezioni: resinati

Si tratta della la via appena a destra del Diedro Canale, arrampicata divertente su placche a buchi ma un po' anonima rispetto alla Luc.
Per evitare la doppia sulla via è consigliabile salire anche l'ultimo tiro che però è da proteggere a clessidre e alberelli; l'ultima sosta è stata rimossa ma è possibile recuperare il secondo strozzando dei cordini nei tasselli con dado. Per traccia a piedi si arriva alla doppia di calata posta a sinistra all'uscita del Diedro Canale.





lunedì 21 luglio 2025

Monte Verena: Via Dama Bianca (180 m, V+)

Zona: Monte Verena
Sviluppo: 180 m
Esposizione: NE
Tempo: 3 h
Difficoltà: V, V+
Discesa: a piedi
Materiale: friend fino al 3
Protezioni: cordini, chiodi

Bella intuizione di Mathias Stefani per questa via di arrampicata tradizionale, aperta in solitaria, su roccia bianca e compatta a fessure e diedri, su parete inusuale e molto fresca anche in estate. Ideale per chi ama l'ambiente e non disdegna i lunghi avvicinamenti (ma non troppo). Le difficoltà non sono eccessive ma è necessario sapersi proteggere adeguatamente lungo i tiri. Al termine della via consigliato un piatto di bigoli e una birra al Rifugio poco lontano dall'uscita della via. 

Accesso: si parcheggia nel piazzale degli impianti del monte Verena, gratuito in estate. Prendere la strada sulla destra dell'impianto che risale la pista. Arrivati nel falsopiano in vista dell'impianto superiore (Pista dei Caprioli) prendere una strada-raccordo con sbarra che si collega alla forestale n°820 che si segue in discesa fino al tornante con una palina CAI (30 minuti con buon passo). Scendere il canale per 200 m. Attraversare a destra viso a monte superando una costola erbosa (ometti). Attraversare lungamente sotto parete  superando un primo spigolo e arrivando ad un secondo. Attacco indicato da un chiodo con cordone su una placca di fianco ad un diedro obliquo. (40 minuti dal tornante se non si perde la traccia).

Descrizione:
L1: salire con andamento diagonale verso sinistra per una fessura e vari risalti fino ad un chiodo con cordone giallo che indica il punto di sosta da integrare con friend. IV, 25 m
L2: si attraversa in orizzontale verso sinistra e poi in verticale per una lama, una fessura e un camino che conduce alle grandi placche che si seguono con leggera destra fino a una cengia comoda. Sosta su grossa clessidra con anello. V, 35 m
L3: rimontare la bella colata nera a gocce fino ad una cengia poi prendere delle fessure che permettono di raggiungere una seconda piccola cengia. Qui si attraversa nettamente a destra per ballatoio (cordone) fino a una grossa cengia con sosta su due chiodi e anello. V+, 25 m
L4: si superano delle belle placche e poi delle rocce rotte sempre con andamento verso destra fino ad arrivare ad una zona mugosa dove si sosta su mugo. IV+, 45 m
L5: variante di uscita non originale. Si attraversa a sinistra e fino a superare un larice e ci si trova sotto alla curiosa "Scodella". La si supera nel centro fino ad uscire sulla sommità a sostare su una clessidra. Libro di via. IV, 50 m

Discesa: attraversare per traccia a sinistra superando della vegetazione alta in leggera salita fino ad arrivare nei pressi dell'ultimo tornante prima del Rifugio (5 minuti). Dal rifugio si scende dalle piste lungo la traccia marcata ed in 15-20 minuti si è nuovamente alla macchina.

Relazione originale



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La scodella

Il canalone da scendere

Il raccordo a destra: non raggiungere il Rifugio all'andata

L3

L4

L1




giovedì 17 luglio 2025

Monte Cengio: Via Piccole Mani (VIII-, 240 m, VI+ obb.)

Zona: Monte Cengio
Sviluppo: 260 m, 8L
Esposizione: S
Tempo: 2 h
Difficoltà: VIII-, VI+ obb.
Discesa: a piedi
Materiale: singola, 10 rinvii
Protezioni: fix, chiodi, cordini

E con "Piccole mani" in versione serale, completiamo la ripetizione della doppietta di nuove vie di arrampicata del 2025 del Gruppo 4 Gatti. Chiodatura ottima, pulizia maniacale e due piccole opere d'arte all'attacco al posto del classico nome. In Altopiano la valorizzazione delle pareti e del territorio continua a stupire e ispirare, grazie alla passione e all'impegno di questo gruppo di apritori. Via di soddisfazione.

Accesso: dal park del Rifugio Granatiere prendere il sentiero che conduce alla base della parete e costeggiarla verso Est oltrepassando la Cresta delle postazioni, continuare per 100 m fino ad una panchina sotto ad uno strapiombo giallo. Attacco in comune con "Equilibrio sopra la follia", direttamente sul sentiero contraddistinto da 2 piccole sculture metalliche.

Descrizione:

L1: Prima parte in comune con Equilibrio poi spostamento a destra e risalita fino alla comoda cengia. 25 m V+.
L2: Bel muretto fino alla successiva comoda cengia. 25 m, VII-
L3: Si sale la placca nera verso destra, nel tratto chiave (cordino nero) attraversare a destra su tacchette fino ad una grossa presa, da li dei piccoli appigli permettono di vincere il muro compatto. 24 m VIII-
L4: Continuazione della placca nera sfruttando dei buchi sulla sinistra, sosta su albero da attrezzare. 22 m VII-
L5: Non seguire la cresta erbosa ma stare bassi per traccia fino alla sosta. A piedi per 50 m
L6: Tiro tortuoso, allungare i rinvii. Si superano una serie balze con prese stondate. 37 m VII-
L7: Si attraversa a destra fino ad una pianta e poi su dritti fino in sosta su roccia delicata. 45 m IV+
L8: Raggiungere la pianta e poi sullo spigolo più a destra (chiodi un po' nascosti), roccia molto bella e compatta ad eccezione dell'uscita in sosta. 30 m VII

Discesa: Percorrere il sentiero del Granatiere verso ovest in discesa fino al Rifugio Granatiere.


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