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giovedì 3 luglio 2025

L'alpinismo come volontà e rappresentazione

Quando ho iniziato a scalare, per la prima volta su quella placconata assolata nella Valle della Luce stavo iniziando a percorrere un sentiero interiore tracciato da uno dei filosofi più complessi e affascinanti del XIX secolo: Arthur Schopenhauer. Non è stato lui certo a darmi la spinta per farmi prendere in mano le scarpette, ma è stato lui a fornirmi gli strumenti per comprendere perché, a distanza di molti anni, non riuscivo mai a fermarmi, neanche dopo la cima più alta raggiunta o la via più impegnativa scalata. E questo perchè? Perchè ogni discesa conteneva sempre già in sé l'inerzia e la spinta verso una nuova salita.La volontà di cui parla Schopenhauer è una forza bruciante, cieca ed istintiva, che muove tutto: l'uomo, gli animali, gli alberi, perfino la materia inanimata: le pietre che cadono. È desiderio, fame, spinta. Non ha uno scopo razionale: vuole solo continuare a “volere”. Nel mio piccolo, quando inseguivo numeri, nomi e ripetizioni, ero completamente immerso in questa volontà. Non c'era cima che bastasse. Appena raggiunta, ne compariva un'altra nella mia mente, più difficile, più "vergine", più mia. Ma il filosofo ci avverte: questa fame infinita non porta alla felicità, ma alla sofferenza. Perché desiderare significa essere sempre, in qualche misura, mancanti. E quante volte io stesso ho pensato: "perché non basta mai?" Per fortuna personalmente oggi per me scalare piccole o grandi pareti che siano, di fondovalle o di alta montagna, non lo vivo più come una sfida o la caccia ad un numero. È diventato uno specchio, in cui osservo cosa mi muove davvero.

La vita oscilla fra dolore e desiderio

Negli anni quanti amici ho visto stancarsi, disilludersi, perfino fuggire dalla montagna dopo anni di passione bruciante. In fondo, è la stessa differenza che tracciava Bruno Detassis tra le due anime di chi va in montagna: il crodaiolo vive per la difficoltà, per il gesto tecnico, per la sfida nuda. Ma spesso, proprio per questo, se ne allontana col tempo. L'alpinista, invece, è mosso da una passione che guarda alla cima, alla linea, alla bellezza del cammino, anche se più semplice e ne rimarrò fedele. "Io andrò in montagna finché le gambe mi porteranno." diceva il Custode del Brenta. Eppure, in montagna c'è qualcosa di più. Qualcosa che, proprio il pensatore tedesco, riconosceva come unica tregua dalla morsa del desiderio: l’arte, la musica e la meditazione. O meglio: la contemplazione estetica. Quindi non è una via l’opera d’arte come uso comune scrivere nel nostro "settore", ma è l’emozione del raggiungimento della vetta, le nuvole sotto di essa, il momento silenzioso al termine di una scalata, che identifica e completa il raggiungimento del nostro obiettivo. Lì, al termine di uno spigolo aereo, con il vuoto alle spalle e le nuvole che si aprono sopra alle Pale, si può sentire, per un istante, l’assenza del volere. Non desidare più nulla. Non voler arrivare, non dimostrare. Solo essere, guardare, respirare ed essere parte del tutto.

La montagna osservata come un attimo puro, senza volontà.

Qui entra in gioco una riflessione cruciale. In arrampicata esistono due archetipi di “via”: la via per se stessi: protezioni assenti, nessuna traccia, pietre in bilico, rischio alto. La via per gli altri: ripulita dal primo salitore o dalle ripetizioni, con soste sicure e protezioni nei punti giusti: affrontabile da chiunque abbia esperienza a discernere dallo stile, sportivo o alpinistico che sia. Secondo l’etica di Schopenhauer, la prima è ancora espressione della volontà. Vuoi salire, vuoi essere primo, vuoi distinguerti. Anche se cammini sul filo del rasoio, lo fai per il tuo Io. La seconda invece, può diventare un atto morale. Se apri una via per permettere ad altri di viverla con fiducia, se metti protezioni buone pensando non a quanto sei bravo nel posizionare volontariamente più lontano possibile, ma a quanto può essere bello e sicuro per altri... allora stai negando l’egoismo. E Schopenhauer questo lo chiama compassione; l’etica è compassione.

Chi pianta un chiodo per un altro che non conosce, ha già negato la supremazia del proprio ego.

Prendiamo una via immaginaria: la Clessidronomo sul Sarcofago d’Argento. È una via relativamente recente, fine anni ‘90, ma già classica per le ripetizioni,  elegante. Quello che colpisce è la generosità con cui è stata idealizzata: protezioni nei punti giusti, senza esagerare, lasciando la possibilità di integrare. Soste ben piazzate, difficoltà non banali ma nemmeno estreme. È una via che "accoglie", non che respinge. Chi l’ha tracciata non cercava il grado più alto, ma la bellezza e la possibilità di condividerla.

In una via pensata per gli altri: la bellezza e la sicurezza si incontrano.

Da queste riflessioni nasce un pensiero che condivido con ogni chiodatore, ogni apritore, ogni amante delle linee pulite e curate: la vera via è quella che può essere percorsa anche da chi viene dopo. Non aprire per la gloria, ma per amore della linea e del prossimo. Ogni protezione è un gesto morale. Rispetto per la roccia, non piegarla al proprio ego. Non confondere il rischio con l’etica e lasciare qualcosa che duri, non solo tra le fessure della roccia ma nella mente di chi salirà.

Non ogni traccia porta a una cima, ma alcune portano a se stessi.

Schopenhauer non era un alpinista, ma credo che avrebbe capito profondamente la tensione interiore dell’arrampicatore. Anzi, credo che la lettura schopenhaueriana completi una visione già intuita in tempi più recenti da Reinhold Messner: quella dell'alpinista come Sisifo moderno, condannato a salire ancora e ancora, pur sapendo che la cima è effimera. Nel suo pensiero l’avventura è specialmente dolore e ci ricorda che la montagna è più fatica che esito, più volontà che appagamento. L’alpinista, come il pensatore, è colui che affronta la fatica sapendo che il desiderio non si spegnerà mai, e che proprio in questa lucida consapevolezza sta il suo valore umano. Se l’uomo cerca di liberarsi dal dolore, il desiderio della montagna può essere insieme specchio e sentiero. Si può scalare per ego, e cadere nel ciclo eterno del volere, oppure si può scalare per comprendere, per essere presenti, per accompagnare gli altri. Aprire una via per il prossimo, ben protetta, generosa, è già per se una negazione dell’io. Un piccolo passo fuori dalla volontà e quindi, forse, verso la vera libertà.

Manuel Leorato

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